Ricorso  per  la  regione Emilia-Romagna, in persona del presidente
 della giunta regionale  pro-tempore,  autorizzato  con  deliberazione
 della  giunta regionale n. 4914 del 18 ottobre 1990, rappresentanta e
 difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico  Falcon  di
 Padova,  con  domicilio  eletto a Roma presso l'avv. Luigi Manzi, via
 Confalonieri, 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri  per
 l'annullamento  del  d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, recante "Misure
 urgenti per il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria
 relativa  agli  anni  1987 e 1988 e disposizioni per il finanziamento
 della  maggiore  spesa   sanitaria   relativa   all'anno   1990",   e
 precisamente delle seguenti disposizioni:
      art.  3,  primo comma, in quanto assegna alle regioni il compito
 di "autorizzare le unita' sanitarie  locali  e  gli  altri  enti  che
 gestiscono  i  servizi  sanitari finanziati dalle quote regionali del
 Fondo  sanitario  nazionale  ad  assumere  impegni  per   l'esercizio
 finanziario  1990  anche  in  eccedenza  agli  stanziamenti  di parte
 corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere  a
 spese   improcrastinabili   e   di   assoluta  urgenza  entro  limiti
 prequantificati  dalle  regioni  stesse  per  ciascun   ente"   senza
 prevedere corrispondenti entrate nel bilancio regionale;
      art. 3, secondo comma, in quanto assegna alle regioni il compito
 di "autorizzare le unita' sanitarie  locali  e  gli  altri  enti  che
 gestiscono  i  servizi  sanitari  ad  assumere con i propri tesorieri
 anticipazioni straordinarie di cassa alle condizioni  previste  dalle
 convenzioni  di tesoreria" senza prevedere corrispondenti entrate nel
 bilancio regionale;
      art.  3,  terzo  comma, in quanto invece di prevedere apposite e
 nuove entrate di bilancio regionale per il finanziamento delle  spese
 disposte ai sensi dei precedenti commi, pone espressamente la spesa a
 carico delle regioni;
      dei corrispondenti articoli della legge di conversione.
                                 FATTO
    Il  d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, qui impugnato, concerne, come
 enunciato dal suo titolo, da una parte  il  finanziamento  del  saldo
 della  maggiore  spesa  sanitaria  relativa  agli  anni  1987 e 1988,
 dall'altra disposizioni per il  finanziamento  della  maggiore  spesa
 sanitaria relativa all'anno 1990.
    Per quanto riguarda la maggiore spesa sanitaria relativa agli anni
 1987 e 1988, il nuovo decreto-legge prevede un meccanismo destinato a
 completare  il  finanziamento  statale  della  parte di tale maggiore
 spesa "non coperta con le operazioni di finanziamento" gia'  disposte
 con l'art. 1 del d.-l. 25 novembre 1989, n. 382 (conv. con mod. nella
 legge 25 gennaio 1990, n. 8).
    Conviene  ricordare che con tale disciplina si era previsto che la
 maggiore  spesa  relativa  agli  anni  1987  e  1988  fosse   coperta
 essenzialmente   "mediante   operazioni   di   mutuo   con  onere  di
 ammortamento a carico dello Stato": e  tuttavia  tali  operazioni  di
 mutuo   con   oneri  a  carico  dello  Stato  venivano  dalla  stessa
 disposizione limitate al "20 per cento con  operazioni  di  mutuo  da
 attivare  entro il 31 dicembre 1989 con la Cassa depositi e prestiti"
 ed al "35 per cento con operazioni di  mutuo  da  attivare  nell'anno
 1990 con le aziende ed istituzioni di credito".
    Era inevitabile che siffatto meccanismo non coprisse per intero la
 maggiore spesa: ed e' appunto per  la  parte  non  coperta  con  tale
 meccanismo  che il d.-l. n. 262/1990 prevede ora il completamento del
 finanziamento per la parte residua, mediante nuovi mutui, sempre  con
 oneri  di  ammortamento  a carico dello Stato, "entro i limiti del 20
 per cento e del 25 per cento" (cioe' misura complessiva  del  45  per
 cento,  la  quale,  sommata  al  55 per cento gia' coperto in base al
 precedente decreto, copre ora integralmente la  spesa  relativa  agli
 anni 1987 e 1988).
    Cosi'  intesa,  la  disciplina  dell'art.  1  pone correttamente a
 carico dello Stato l'onere  del  ripiano  dei  bilanci  delle  unita'
 sanitarie locali e degli altri enti gestori dei servizi sanitari.
    Ben  diversamente,  invece,  dispone  il  d.-l. n. 262/1990 per il
 finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno  1990.
    In  particolare,  il  primo  comma  dell'  art.  3 dispone che "le
 regioni possono autorizzare le unita' sanitarie locali  e  gli  altri
 enti  che  gestiscono  i  servizi  sanitari  finanziati  dalle  quote
 regionali del Fondo  sanitario  nazionale  ad  assumere  impegni  per
 l'esercizio  finanziario 1990 anche in eccedenza agli stanziamenti di
 parte  corrente  autorizzati  con  il  bilancio  di  previsione,  per
 provvedere  a  spese  improcrastinabili  e  di assoluta urgenza entro
 limiti prequantificati dalle regioni stesse per ciascun ente", mentre
 il  secondo  comma assegna alle regioni il compito di "autorizzare le
 unita' sanitarie locali e gli altri enti  che  gestiscono  i  servizi
 sanitari   ad   assumere   con   i   propri  tesorieri  anticipazioni
 straordinarie di cassa alle condizioni previste dalle convenzioni  di
 tesoreria". Ed in relazione a cio' il terzo comma, anziche' prevedere
 meccanismi  di  trasferimento   dallo   Stato   idonei   a   produrre
 corrispondenti  entrate  nel  bilancio regionale, dispone che i costi
 conseguenti "sono assunti a carico delle regioni e sono finanziati  o
 con  i  propri  mezzi  di  bilancio,  o mediante alienazione dei beni
 patrimoniali disponibili, ovvero mediante la contrazione di  mutui  o
 prestiti  con  istituti  di credito, da assumere anche in deroga alle
 limitazioni previste dalle vigenti disposizioni, avvalendosi  per  la
 copertura delle relative rate anche delle entrate tributarie previste
 dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158".
    E'  dunque  evidente che il meccanismo di copertura delle maggiori
 spese per l'anno 1990 poggia  su  gravosi  pesi  posti  alla  finanza
 regionale.
    Ma  tale meccanismo non solo e' gravoso sul piano del fatto, ma e'
 costituzionalmente  illegittimo,  in  quanto  lesivo   dell'autonomia
 finanziaria  regionale,  garantita  dall'art. 119 della Costituzione,
 per le seguenti ragioni di
                                DIRITTO
    1.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, primo, secondo e
 terzo  comma,  in  quanto  assegnano  alle  regioni  il  compito   di
 autorizzare  spese  anche  in  eccedenza  agli  stanziamenti di parte
 corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere  a
 spese  improcrastinabili  e  di assoluta urgenza, e di autorizzare le
 relative  anticipazioni  di  tesoreria,  ponendo   espressamente   il
 relativo costo a carico del bilancio regionale.
    Ad  una  prima  lettura,  il  meccanismo contenuto dall'art. 3 del
 d.-l. n. 262/1990 potrebbe sembrare favorevole alle regioni, dato che
 esso   "permette"  alle  regioni  stesse  di  autorizzare  le  unita'
 sanitarie e gli altri enti finanziati su quote  del  Fondo  sanitario
 nazionale  ad assumere per il 1990 impegni in eccedenza rispetto agli
 stanziamenti  di  parte  corrente  autorizzati  con  il  bilancio  di
 previsione.   E   sempre  a  prima  vista,  potrebbe  anche  sembrare
 "coerente", che il costo di tali spese permesse dalla  regione  gravi
 sulla  regione  stessa  che le ha permesse, secondo quanto dispone il
 terzo comma dello stesso articolo. Cosi' infatti potrebbe dirsi se il
 deficit  dei  bilanci  di  parte  corrente fosse la conseguenza delle
 autonome scelte regionali, espresse dalle autorizzazioni, e se a cio'
 si riferisse la responsabilita' finanziaria regionale.
    In  realta',  la  citata disposizione costituisce un esempio quasi
 scolastico di irrazionalita' - si potrebbe persino dire di ipocrisia,
 se  si  potessero  attribuire al legislatore i difetti degli uomini -
 legislativa. Infatti, il legislatore finge di non sapere che cio' che
 determina  lo  sfondamento  dei  bilanci di parte corrente degli enti
 gestori del servizio sanitario nazionale non sono  presunte  autonome
 scelte regionali di politica sanitaria - che nell'attuale sistema non
 esistono - ma e' semplicemente il sommarsi di voci di costo (quali il
 costo  per  l'assistenza  farmaceutica,  come  pure  per gli esami di
 laboratorio e le degenze ospedaliere) previste e  disciplinate  dalla
 legislazione  statale,  che  operano  in  modo automatico e del tutto
 indipendente da qualunque possibilita' di intervento regionale.
    In  tale  situazione,  non  puo' non richiamarsi l'insegnamento di
 codesta ecc.ma Corte  costituzionale,  dato  fin  dalla  sentenza  n.
 245/1984,   secondo   il   quale   deve   oggi   escludersi  "che  le
 amministrazioni regionali portino l'effettiva  responsabilita'  degli
 eventuali  disavanzi  delle  unita' sanitarie locali", dato che "gran
 parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente  dalla  scelte
 regionali  (e  dalle  stesse  deliberazioni  degli organi di gestione
 delle unita' sanitarie locali": sicche' "la  parte  essenziale  della
 spesa  sanitaria  ed  ospedaliera non puo' non gravare sullo Stato...
 per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta ugualmente a
 tutti   i   cittadini   e  va  salvaguardato  sull'intero  territorio
 nazionale".
    Tali  principi  sono  stati poi confermati e sviluppati da codesta
 Corte costituzionale con la sentenza  n.  452/1989,  ove,  sempre  in
 materia   di   spesa  sanitaria  (con  riferimento  alle  prestazioni
 specialistiche in regime di convenzionamento  esterno),  si  ribadiva
 l'impossibilita'  costituzionale  di  addossare al bilancio regionale
 gli oneri derivanti da decisioni non imputabili alla regione  stessa.
    Ne'  varrebbe  obiettare  che tali principi non sono violati dalla
 normativa qui impugnata, in quanto essa non impone ma solo "permette"
 alle  regioni  di  autorizzare spese "improcrastinabili e di assoluta
 urgenza" in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente.
    L'obiezione,  infatti, non avrebbe pregio. Se lo Stato attribuisce
 alla regione un potere,  deve  evidentemente  dotarla  delle  risorse
 corrispondenti,   quando   non   si   tratti  di  spese  che  possono
 legittimamente essere addossate al bilancio  regionale,  nei  termini
 sopra detti.
    Invece,  secondo  le  disposizioni del decreto-legge, il solo modo
 dato alle regioni per evitare un pesante ed ingiustificato  onere  di
 bilancio   consisterebbe...   nel   rifiutare   sistematicamente   le
 autorizzazioni, quando gli enti gestori del servizio le richiedano.
    Ma  cio' non solo e' paradossale - dato che la regione e' chiamata
 ad applicare le leggi, e non a difendersi da esse - ma e'  anche  del
 tutto  insostenibile,  sia  sul  terreno  del fatto che su quello del
 diritto. Da una parte, infatti, e' evidente che la sola esistenza  di
 tale potere autorizzatorio convoglia sulle regioni l'enorme pressione
 della domanda sociale  tesa  ad  ottenere  tali  autorizzazioni,  che
 corrispondono  d'altronde alle necessita' oggettive (basti pensare al
 problema di garantire l'assistenza farmaceutica diretta, in relazione
 al quale secondo dichiarazioni autorevoli il meccanismo sarebbe stato
 pensato): sicche' non puo' certo  immaginarsi,  gia'  sul  piano  del
 fatto,  che  in tale situazione la regione possa limitarsi ad opporre
 il suo rifiuto di autorizzare la spesa, e gia' la sola circostanza di
 porre  la  regione  in tale condizione costituisce una palese lesione
 della sua autonomia.
    Ma  soprattutto,  la regione, una volta dotata del potere previsto
 dall'art.  3,  non   potrebbe   nemmeno   sul   piano   del   diritto
 legittimamente  rifiutarsi  di  concedere  le autorizzazioni, qualora
 evidentemente ricorressero i presupposti che la  stessa  disposizione
 prevede.  In  effetti,  il potere dato alla regione, come ogni potere
 pubblico, e' necessariamente un potere-dovere, ad esercizio doveroso.
 E  si  noti che i prosupposti previsti dal decreto-legge non solo non
 fanno riferimento a maggiori costi derivanti da scelte regionali,  ma
 si  riferiscono  ad  ogni  spesa  che  sia  "improcrastinabile" e "di
 assoluta urgenza": qualita' che e' ovviamente innegabile a spese,  la
 cui  eventuale  non autorizzazione mette a repentaglio niente di meno
 che il diritto alla salute.
    Non  solo  dunque  di  fatto,  ma  anche in diritto la regione non
 potrebbe non concedere le autorizzazioni richieste. Di qui l'assoluta
 illegittimita' costituzionale di un meccanismo che dota le regioni di
 un potere-dovere, senza dotarle dei mezzi necessari al suo esercizio,
 e   pretendendo   al   contrario  che  esse  si  addossino  le  spese
 conseguenti.
    Risulta  evidente  che  tale  meccanismo  altro  non e' - se ci si
 consente l'espressione propria usualmente di altro contesto - che una
 "misura di effetto equivalente" al puro e semplice addossamento degli
 oneri alle regioni, gia'  dichiarato  illegittimo  da  codesta  Corte
 costituzionale.
    Che  poi  secondo l'art. 3, terzo comma, il costo sia addossato al
 bilacio regionale risulta con evidenza dall'espresso  riferimento  ai
 "propri  mezzi di bilancio" e dalla specifica indicazione dei modi di
 reperire tali mezzi, consistenti in null'altro che nella cessione  di
 propri  beni,  o  nell'indebitamento,  o  nell'uso di proprie risorse
 finanziarie.
    A  nulla  vale  in  contrario, in particolare, il riferimento alle
 "entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno  1990,
 n. 158".
    Basta  infatti  osservare  che  il  primo  comma  di tale articolo
 ascrive esplicitamente tali entrate al "precetto di  cui  al  secondo
 comma  dell'art.  19  della  Costituzione", cioe' al corpo generale e
 normale delle entrate regionali.
    Si  conferma  percio' che i costi di cui all'art. 3 dell'impugnato
 decreto-legge sono puramente e semplicemente  addossati  al  bilancio
 regionale,  con  violazione  dell'art.  119 della Costituzione, cosi'
 come  rettamente  inteso  alla  luce  della  costante  giurisprudenza
 costituzionale.